L'ultima coppa del mondo
28 luglio 1966
28 luglio 1966
Ormai la coppa sta per arrivare in fondo alla sua storia; gli inglesi sono in finale e Pozzo (un po' divertito, un po' infastidito, un po' ammirato) fissa tre punti: l'improvviso mutamento d'umore dell'opinione pubblica, del civis britannicus dopo la vittoriosa semifinale; i vantaggi di cui l'undici albionico gode giocando sempre a Wembley - sul morbido pitch che taglia le gambe a chi non ci è abituato; l'indiscutibile classe di Bobby Charlton.
Londra, 27 luglio.
I giornali inglesi hanno cambiato tono. Tutti quanti. Sono scomparse le critiche alla squadra nazionale del Paese e al suo commissario tecnico Ramsey. E' bastato che i giocatori dell'undici dell'Inghilterra svolgessero una partita convincente contro il Portogallo - e questa l'hanno giocata realmente bene - per far esplodere tutti quanti in un urlo di entusiasmo irrefrenabile. Una cosa incredibile.
Noi in Italia incolpiamo senz'altro di nazionalismo spinto - e riusciamo anche a convertire il patriottismo in un delitto - chi prodiga delle lodi sperticate ai giocatori nostri che hanno vinto una partita. Bisogna vedere qui cosa è successo. I giornalisti londinesi sono al proposito i più colpevoli di tutti nel Paese. Quelli delle città lontane e della provincia sono più misurati e contenuti. Ma questi della capitale, nella smania di superarsi l'un l'altro, sono addirittura spudorati.
La squadra nazionale inglese, che veniva prima apertamente discussa, è salita adesso, tutto di un colpo, al settimo cielo. Il centro mediano Jack Charlton, che è un buon giocatore e nulla più, è diventato il «migliore e il più completo della terra». Esagerazioni su esagerazioni. E risulta perfettamente inutile discutere con questa gente per indurla a non allontanarsi troppo dalla ragionevolezza. Il «civis britannicus» in questioni del genere ha sempre ragione lui, il suo Paese è superiore a tutto e a tutti.
Il fatto positivo è che l'undici inglese questa volta ha fatto un passo in avanti come stile, come rendimento, come efficienza, come gioco in genere. Si può almeno dare ragione a questa gente quando sostiene che una volta che la sua squadra viene posta di fronte ad un undici che gioca con correttezza e lealtà, una volta che non abbia a misurarsi con avversari privi di scrupoli, il suo modo di comportarsi si trasforma.
Trasportati sul terreno puramente tecnico, i giocatori inglesi acquistano subito notevolmente in efficienza e in potenza. E' quello che è avvenuto questa volta. Perché i portoghesi sono stati proprio di una correttezza esemplare. Hanno giocato esclusivamente sulla palla, rispettando l'uomo. Ed Eusebio, il colored man del Mozambico, questo ragazzo che viene dalle colonie, tiene un comportamento che il più corretto dei figli di papà inglese, che abbia studiato ad Oxford o a Cambridge, non arriva a tenere. Con uomini di tanta distinzione non c'è da meravigliarsi se il gioco migliora naturalmente e istantaneamente di qualità.
D'altra parte non va dimenticata la natura speciale del terreno di Wembley. Esso è tenuto in modo esemplare. E' soffice, arriva quasi ad essere allentato e sfondante. Noi ci siamo stati su più di una volta e lo conosciamo bene. Chi non è abituato è spesso soggetto a dolori alle gambe nel corso del secondo tempo, se non addirittura soggetto a crampi. Mentre i portoghesi, per il sole che la fa da padrone in casa loro, sono abituati a terreni più duri e consistenti, gli inglesi, che non si sono mai mossi da Wembley, dove hanno disputato tutte e cinque le loro partite del torneo, vengono a trovarsi avvantaggiati.
Il grande uomo dell'Inghilterra è stato questa volta - cioè ancora una volta - Bob Charlton, l'attaccante enciclopedico del Manchester United. Sue sono state le due reti che hanno dato la vittoria all'Inghilterra: l'una ispirata da accortezza e precisione, l'altra tutta materiata da una potenza formidabile. Per noi, ripetiamo, ieri un pareggio fra le due semifinaliste sarebbe stato la cosa più giusta. Ma con uomini di simile calibro dobbiamo classificare la vittoria dell'Inghilterra fra i risultati equi e meritati di questo torneo.
"La Stampa", 28 luglio 1966, p. 8